Una domenica di normalità

Pubblicato il 29 Maggio 2017 da • Ultima revisione: 22 Marzo 2018

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Vogliamo tutti una vita speciale. Ce la meritiamo. Una vita divertente, originale, ricca. Una vita che non cada mai nella routine della quotidianità.
Del resto perché dovremmo accontentarci di una vita normale, se possiamo aspirare a una vita straordinaria?

La normalità, così mediocre.

Eppure quante notti ho desiderato che il tempo si fermasse mentre eravamo tutti e tre nel lettone: questo è il mio mondo, non voglio che finisca mai.
E prima di salire su un treno mi dico sempre: Non vedo l’ora di ritornare a casa. Anche se non sono ancora partita.

Su Mammafelice c’è un post in bozza, che è il mio ultimo saluto. L’ho scritto quando Dafne aveva due anni e ogni volta che ho paura di un viaggio lo riapro, lo aggiorno, mi dico che è proprio un bel post, lo salvo di nuovo in bozza.

Ho sempre avuto una vena tragica che mi fa molta simpatia, e me la tengo.
Perché posso sorridere delle mie paure e le posso affrontare, ma non voglio separarmi dalla mia normalità senza fare un ultimo saluto.

Io ci penso spesso. Mi guardo spesso intorno e ringrazio Dio, anche se non ci credo. Mi guardo intorno e in mezzo a tutte le mie cose mi sento al sicuro.
Mi sento al sicuro quando la porta di casa è ben chiusa.
Mi sento al sicuro quando sto in giardino a giocare con mia figlia.
Mi sento al sicuro quando mi metto sotto le coperte e mi approprio di un riposo che mi spetta – perché ho fatto tanto, ho lavorato tanto, mi sono data da fare.

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E all’improvviso mi manca il respiro se penso che in un attimo tutta questa apparentemente mediocre normalità può essermi portata via dal terremoto, o da qualunque altro evento che non posso controllare. Mi manca il respiro al pensiero di avere pochi minuti per arraffare qualcosa da mettere in una borsa e abbandonare tutto.
I miei vestiti, che io cosa cavolo mi potrei mettere se non avessi i miei vestiti taglia forte?
I libri di scuola di Dafne, i suoi quaderni: come farebbe a finire la scuola se perdesse tutto il lavoro fatto fino ad ora?
E poi le mie collane pacchiane, le polo di Nestore, la pentola per la paella, il mio rossetto fucsia, le pinzette per le sopracciglia, i fogli appesi sul frigorifero con tutti i numeri da chiamare, la spazzola di Dafne che toglie i nodi, il suo orsetto Teddy, le ciotole di Fragola, la mia mantella invernale…

Le cose normali che giorno dopo giorno mi sono regalata, le mie certezze, le piccole soddisfazioni, i ricordi a cui mi sono aggrappata.

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Quando la vita ti porta via molto, la normalità non sembra più così male.

La solita domenica a pranzo dai suoceri, che tanto ci pesava.
La recita a scuola, che ci faceva venire voglia di scappare.
La festa di compleanno ai gonfiabili, insopportabile.
Gli auguri di Natale ai parenti, forzati.

No, io no. Io questa normalità ho imparato a non disprezzarla e, non solo: ho imparato a cercarla. Ho imparato a mie spese che il dolore crea ferite che spesso non si rimarginano, ma il corpo riesce a sopravvivere lo stesso e la felicità va a ricoprire le cicatrici come una linea dorata sui vasi cinesi.

Ho imparato che la vita è un soffio. Che la vita a volte ti viene portata vi ancora prima di nascere, e che niente potrà saldare quello strappo a contorni laceri. Passando un dito sulla pelle quello strappo segnerà una strada su tutto il corpo, e nonostante questo in qualche modo la felicità troverà il modo di infiltrarsi anche dentro strade interrotte e dissestate.

No, io no, io questa normalità non voglio perderla. Non voglio perdere le calamite sul frigorifero, le volte che torno a mezzanotte ed entrambi mi dicono che gli sono mancata.
Non voglio perdere il rumore dei termosifoni che tanno tac quando si accendono di notte. L’odore pungente del pane sfornato di notte sotto casa. Il suono metallico della serranda dei negozi che aprono. Il rumore quieto delle strade di notte. Il vociare dei ragazzini sotto le finestre, quando d’estate fa troppo caldo per tenere giù le tapparelle e troppo freddo per accendere il condizionatore.

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Quando sono andata a Preci – una manciata di ore – tutti mi hanno chiesto se ho visto il terremoto, ma io non ho visto niente. Non ho visto il paese, non ho visto le case, le crepe, le macerie, le strisce rosse e bianche che delimitano la zona rossa. Non ho visto il dolore. Non c’erano lacrime, rabbia, frustrazione, rassegnazione. Niente.

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C’erano solo un capannone con 100 posti a sedere, un menù da preparare, i vapori della cucina.
C’erano scatole e scatole di buoni prodotti Selex con olive da scolare, carciofini da tagliare in quattro (casomai non bastassero per tutti, ma sono bastati e avanzati), arrosti da affettare, i salami, i formaggi, le bruschette (ma mi raccomando, con l’olio buono e senza sale, che qui il pane ci piace sciapo e non offendiamo con questo sale).

C’erano le persone: quelle che sono uscite dai loro uffici, come me, per andare a trascorrere una domenica di normalità con chi ha perso la normalità e forse pure le domeniche. Chi ha perso le case sotto il terremoto, chi ti dice: Non so, alla fine dell’estate da qualche parte andremo.

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Quello che io amo degli esseri umani è come sanno raccontare la vita senza strafare.

Dopo la disperazione, arriva sempre un momento in cui le storie sono quasi normali: nella voce non c’è più la paura, non c’è più la sconfitta, ma il puro e semplice racconto dei fatti.
La casa tagliata a metà dal terremoto, perso tutto, siamo vivi. Stop.
Come un telegramma mandato a casa durante un viaggio: siamo vivi stop.

Amo gli esseri umani perché la nostra umanità è ciò che ci rende allo stesso tempo fragilissimi, ma anche potentissimi. Siamo in grado di costruire ponti sospesi sulle montagne, aerei supersonici, razzi che vanno sulla luna. Siamo capaci di atti di grande eroismo e generosità, siamo capaci di salvarci a vicenda, di aiutarci, di diventare fratelli sopra tutte le nostre differenze.

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È forse normalità questo potere straordinario che abbiamo di cambiarci, e cambiare il mondo con le nostre parole e le nostre azioni?

Ma chi lo sa, e in fondo chi se ne frega della risposta.
Certe volte mi basta sapere che insieme tutto è possibile, anche contro gli eventi, e che la vita in qualche modo – io non ho ancora capito come, ma santocielo so che è così! -, la vita alla fine in qualche modo riesce a insinuarsi dentro le ferite facendole guarire.

E noi possiamo fare molto: possiamo aggrapparci a questa normalità così straordinaria, accoglierla, regalarla ai nostri vicini di casa, dare il nostro contributo.
Le persone: sono le persone a trasportare la felicità.

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Grazie a Selex ho potuto conoscere gli abitanti di Corone, frazione di Preci, una delle zone più colpite dal terremoto in Umbria.
Come ritengo giusto, donerò parte del mio compenso per supportare l’iniziativa in sostegno di questa cittadina.



Commenti

6 Commenti per “Una domenica di normalità”
  1. IsaQ

    Post eccellente! Di + non posso dire perchè sono commossa.

  2. Bella pennellata di umanità Barbara, mi ci sono vista dentro, fra le tue cose e i tuoi affetti. Brava!

  3. Valeria

    Ciao Barbara, ma qual è questo post che aggiorni?
    Vorrei tanto leggerlo.

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