La sfida della felicità

Pubblicato il 8 Agosto 2017 da

Credo che la felicità ci chiami soprattutto nelle difficoltà, come se volesse essere scelta. La felicità che è spesso così semplice e così normale, così quotidiana e reale, e tutto il resto del tempo è così complicata e assurdamente difficile.
Come se essere felici fosse davvero la sfida della nostra vita. Visto che abbiamo una sola vita e non dovremmo sprecarla.

barbara-damiano_mammafelice-blogger-felicita

Non credo alla sfortuna. Non credo che le persone meritino il dolore, le malattie, le ‘sfighe’. Non credo che la sfortuna porti altra sfortuna. Non credo alle maledizioni, alle maldicenze, alla credenze popolari.
Nessuno merita di star male, nessuno merita una malattia, nessuno ha mai meritato di soffrire. Talvolta la vita funziona così e basta e non è colpa di nessuno e questo non è un segnale: nessuno dovrebbe mai sentirsi marchiato dalla sfortuna.

È lì che il nostro atteggiamento fa la differenza: nello scegliere di accettare il dolore, o nel combatterlo con tutte le nostre forze.
Nel cercare un barlume di felicità, una scintilla di gioia, un amore, l’amicizia gentile e affettuosa, la consolazione e poi l’azione.

È lì che nasce la sfida della felicità: quando possiamo solo sprofondare ancora più in basso, oppure guardare in alto – gli occhi nel sole – e aggrapparci alla vita con tutte le nostre forze. – Col cavolo, col cavolo che non ce la facciamo.

In questi giorni abbiamo avuto molti imprevisti faticosi: Dafne con una gamba ingessata, appena tolto il gesso ha preso la quinta malattia (niente mare con la nonna). Nestore a letto per un dolore alla schiena che prevede tanto riposo.
Tutto mentre è in corso il trasloco dell’ufficio e quindi ci sono da fare scatoloni, seguire i lavori, compilare contratti, aggiustare citofoni e pulire gabinetti.

In questi giorni moltissimi amici mi hanno detto, per sorridere: Ma che sfortuna!

E se invece fosse solo la vita? Non c’è una sfortuna dietro ai nostri imprevisti: capitano a tutti, tutti i giorni, da millenni.
Stiamo bene, tutto sommato, siamo allegri, restiamo in casa con l’aria condizionata a mangiare ghiaccioli, sistemiamo gli armadi, mentre ognuno di noi affronta la sua fatica, ognuno di noi affronta la sua sfida personale.

Non riesco a pensarmi sfortunata.
Ogni giorno c’è qualcuno che mi scrive, mi chiama o mi ferma per strada, ogni giorno, per chiedermi come sto, per offrirsi addirittura di venire ad aiutarmi a fare gli scatoloni. Oltre alla mia famiglia che è tutta lì pronta a fare qualsiasi cosa per noi.

Nella mia vita c’è così tanto amore, che anche quando mi deprimo sento subito crescere in me la gioia, la riconoscenza, la dedizione, la felicità per tutto ciò che va bene – senza stare troppo a pensare a ciò che è andato male o poteva andare meglio.

Mi sono successe due cose strane, negli ultimi tempi.

Un giorno una persona della ‘mia’ associazione è venuta in ufficio a prendersi un caffè e mi ha confessato che vent’anni fa le ho in qualche modo cambiato la vita. Dice che eravamo in Parrocchia – io ai tempi ero capo animatrice – in una riunione tra parroco, catechiste, animatori, non so chi… e dice che io mi sono alzata in piedi e ho detto che la nostra Parrocchia non poteva chiudersi, che io non mi riconoscevo in una chiesa che discrimina i gay, che chiude le porte, che interrompe l’amore per un motivo così banale. Più o meno, visto che io non ricordo assolutamente di averlo fatto.
E siccome suo figlio è gay, e a quei tempi veniva discriminato e bullizzato e persino in famiglia era stato complicato accettare il suo coming out, le mie parole le avevano dato la forza di accettare il figlio e stare dalla sua parte.

Poi una signora l’altro giorno mi ha detto: – Mi ricordo di te; eri l’animatrice delle mie figlie. Sei sempre stata una acchiappa anime. Si vedeva che ti piacevano i bambini, eri sempre allegra, loro volevano stare sempre con te.
Non ricordavo nulla nemmeno di questo.

E sono rimasta giorni a rimuginare su questa cosa, e a chiedermi il motivo per cui di me ricordo solo le cose brutte e non quelle belle. Mi ricordo tutti gli errori che ho fatto con i ‘miei’ bambini, quelle volte che li ho sgridati con eccessiva severità, quando non mi sono impegnata abbastanza, quando ho comandato troppo invece che ascoltare.

Ho sempre pensato di essere stata una persona orribile perché la mia vita a quei tempi era orribile, il mio dolore era così feroce e totalizzante che mi sembrava che si vedesse stampato in faccia, in ogni mio movimento e in ogni mia parola.
Ho sempre provato vergogna per il doloroso mostro buio che mi portavo dentro.

Ed è per questo motivo che ad un certo punto ho chiuso la prima parte della mia vita e ne ho ricominciata una tutta nuova in cui mi sono sfidata nel gioco della felicità: ho cercato il cambiamento, l’ho fatto mio, ho lottato con tutta me stessa per riuscire a trovare la mia gioia e poi ho cercato di fare ammenda e di diffonderla ovunque, più forte che potevo.

E solo adesso capisco che quella felicità era già viva dentro di me vent’anni fa, nei miei larghi sorrisi, nei miei abbracci stritolanti, quando mi mettevo a ridere come una matta di fronte alle parodie dei ‘miei’ bambini, quando mi battevo per loro con tutta me stessa per difenderli ‘dai grandi’.

La felicità era già lì e io non riuscivo a sentirla, ma gli altri l’avevano già capita.
Le persone che ho incontrato, le persone, tutte le persone che ho incontrato. Loro hanno avuto fiducia in me, hanno deciso che sarei diventata una brava persona (per quanto possibile umanamente) e hanno perdonato il mio dolore, in cambio di quei sorrisi giocondi e quegli abbracci sinceri.

È questa la vera sfida della felicità: smettere di pensare che facciamo schifo e iniziare a credere nel nostro potenziale.

Essere gentili, voler bene, diffondere la gioia. La vera sfida è smettere di pensare di essere sfigati, e piuttosto tirarsi su le maniche per diventare persone migliori.



Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *